Antonio Vivaldi: Tito Manlio RV 738

Vivaldi Hardbound

A cura di Alessandro Borin

Due volumi: partitura pp. XXII, 316 / Introduzione e commento critico pp. 227 [testi in italiano e inglese]
PR 1411
Riduzione canto e pianoforte
CP 141077

[Estratto dall'Introduzione]

La partitura del Tito Manlio di Antonio Vivaldi è conservata, in duplice copia, presso la Biblioteca Nazionale universitaria di Torino. Il primo esemplare (Giordano 39, cc. 171-365) è una minuta di composizione, mentre la seconda redazione (Foà 37, cc. 119-306) è una copia calligrafica della precedente. Il testo trasmesso in Giordano 39 è quasi per intero di mano di Vivaldi, con la sola eccezione della c. 287r e dei primi due sistemi della c. 331r, sulle quali è riconoscibile la grafia dello «Scribe 10». La misura conclusiva dell’ultimo sistema notato sulla c. 253v è stata invece cancellata e riscritta da una mano ancora diversa, priva di concordanze rispetto a quelle dei copisti italiani di Vivaldi a noi noti. L’esemplare trasmesso in Foà 37 fu realizzato da cinque di essi («4», «10», «11», «12» e «48»), con il contributo e la supervisione dello stesso compositore. In ottemperanza alla prassi dell’epoca, la preparazione e l’esecuzione di un melodramma non abbisognavano tuttavia di una «prima copia» completa della partitura. Le parti vocali e strumentali erano infatti ricavate direttamente dall’autografo, sotto il controllo diretto dell’autore, e anche durante tutto il periodo delle prove e della messinscena era ugualmente sufficiente il solo autografo, tenuto sul leggio del primo cembalista. Fino ad ora, si è stati dunque propensi a ritenere che il testo trasmesso in Giordano 39 rappresentasse la «partitura di lavoro» del compositore e quello testimoniato in Foà 37 la «copia pulita» utilizzata per l’esecuzione.

Vivaldi, in realtà, continuò ad apportare dei cambiamenti all’autografo anche dopo che la copia era già stata completata. Molte di queste modifiche risalgono a una fase piuttosto avanzata e furono riportate anche in Foà 37; altre, introdotte in un momento ancora successivo (forse posteriore alla première), compaiono solo nell’una o nell’altra fonte. Se da un certo punto in avanti fosse stata davvero utilizzata solo la partitura attestata in Foà 37, per quale motivo tali modifiche furono aggiunte anche nella minuta di composizione? E, soprattutto, perché alcuni cambiamenti più tardi furono introdotti soltanto in Giordano 39 e non viceversa?

A queste e ad altre domande si cercherà di rispondere nei paragrafi dedicati alla descrizione dei processi e delle tipologie di revisione del manoscritto autografo. Per il momento è sufficiente rimarcare come entrambe le partiture siano rimaste in possesso del compositore, che le sottrasse al circuito esecutivo subito dopo la conclusione della stagione operistica mantovana del 1718-1719. Questa circostanza potrebbe spiegare anche il motivo per cui non ci è pervenuta alcuna aria staccata indipendente copiata come souvenir di viaggio o destinata al florido mercato dei collezionisti e degli esecutori dilettanti.

L’unica altra fonte autorevole di Tito Manlio è il libretto edito dal tipografo arciducale, Alberto Pazzoni. Il testo non ha passi stampati fra virgolette, né fogli volanti («carticini») inseriti per segnalare eventuali aggiunte o sostituzioni. Anche se il libretto e la partitura prendevano forma ed erano usati simultaneamente, essi conservano nondimeno una certa autonomia, soprattutto per ciò che concerne la loro diversa funzione e i loro rispettivi destinatari. La presenza di «varianti autonome» in entrambe le fonti esclude a priori la possibilità che una sia derivata esclusivamente dall’altra, mentre le occasionali discrepanze fra le parole stampate nel libretto e quelle riportate sotto le note della partitura autografa non riflettono uno stadio di elaborazione più avanzato di una o dell’altra fonte, ma sono semplicemente il risultato di un deficit comunicativo fra il compositore e/o il librettista e lo stampatore.

In molti casi vi è una evidente polarizzazione delle varianti di Foà 37 e del libretto rispetto a quelle di Giordano 39. Nel recitativo finale di I.01, ad esempio, il libretto e la copia trasmettono la lezione «seco non porte», che nell’autografo fu modificata per ipercorrettismo in «seco non porta». I copisti, al contrario del compositore, potrebbero dunque aver avuto a disposizione fin dall’inizio una copia stampata del libretto, o quantomeno il menabò da cui fu ricavato. È un elemento che induce a riconsiderare anche la cronologia relativa delle tre fonti: in altre parole, è possibile che fra la stampa del libretto e il momento della prima rappresentazione sia intercorso un lasso di tempo considerevolmente più ampio di quello che si è soliti ritenere in base agli usi del tempo. Sappiamo, infatti, che per minimizzare le discrepanze fra il testo del dramma intonato dal compositore e le parole effettivamente udite dagli spettatori in teatro il libretto veniva mandato in stampa solo nell’imminenza della prima rappresentazione. In questo caso, però, lo stato delle fonti suggerisce che questo intervallo temporale fu più consistente, pari almeno a quello necessario ai copisti per completare il proprio lavoro.

Commento sulle scelte del curatore

Questa edizione critica si propone di presentare al lettore il testo dell’opera nella forma più vicina possibile a quella raggiunta in occasione della prima rappresentazione mantovana del 1719. Questa scelta, che potrebbe essere considerata il frutto di motivazioni meramente pragmatiche, si rifà in realtà al concetto di «opera come fenomeno sociale» proposto da Jerome J. Mcgann, sulla cui applicazione in ambito musicologico hanno richiamato per primi l’attenzione Jeffrey Kallberg, Susan Lewis Hammond e soprattutto James Grier. Secondo Mcgann, ogni artefatto è il prodotto di un complesso processo di interazione fra autore/i, esecutore/i e destinatario/i, che influenza tanto il momento della creazione quanto quello recettivo. Sempre nell’ottica di Mcgann, l’opera è dunque «un evento sociale […] incastonato in un contesto storico e ideologico, dinamico e stratificato»; il testo, di converso, ci appare come «una struttura linguistica disanimata», un documento che fissa uno stadio particolare del suo processo di socializzazione.

Ciò è particolarmente evidente nel caso del teatro musicale, «un genere in cui si sommano le difficoltà di concettualizzare in termini di Opera e di Testo le due arti, la musica e il teatro, che per loro natura si manifestano principalmente come Evento». Più che dipendere esclusivamente dalla (presunta) volontà di un singolo autore, il processo di socializzazione dell’opera in musica coinvolgeva una pluralità di soggetti diversi (librettista, compositore, esecutori, impresario, pubblico e patrocinatori) e, affinché l’evento potesse aver luogo, era parimenti necessario raggiungere un accordo, in forma più o meno esplicita, fra tutte le parti in gioco. Non v’è dubbio che il momento della prima rappresentazione coincidesse con una prima stabilizzazione di questo rapporto, poiché per poter andare in scena bisognava che il compositore e il librettista fossero soddisfatti del rispettivo lavoro, che tutti i cantanti avessero accettato la loro parte e avuto a disposizione un congruo periodo di prove con l’orchestra, che il pubblico e gli eventuali patrocinatori fossero disposti a (co)finanziare lo spettacolo attraverso l’elargizione di un contributo economico, l’affitto dei palchi del teatro o l’acquisto dei biglietti d’ingresso. Anche se si trattava di un equilibrio precario, che poteva essere ridiscusso più volte nel corso della stessa stagione (ad esempio, sulla base delle reazioni del pubblico o delle pretese dei cantanti), da un punto di vista metodologico un approccio che tenga conto della dimensione sociale del testo è più pertinente all’oggetto dell’indagine filologica rispetto a quello basato sul concetto tradizionale di «volontà dell’autore». L’accertamento del testo critico cessa pertanto di essere il risultato di un’analisi psicologica e diviene il fulcro un’indagine storica.

Per quanto concerne la scelta della fonte primaria dell’edizione critica, l’autografo (A) e la copia (B) si pongono su un piano sostanzialmente paritetico: il primo trasmette una redazione d’autore; la seconda un dettato rivisto dall’autore e, dunque, di pari valore. Tuttavia, dal momento che B contiene tutti gli errori di A, più alcuni suoi propri introdotti dai copisti e sfuggiti al controllo del compositore, si è scelto di utilizzare come testo-base la partitura trasmessa in Giordano 39. Oltre che per la sua maggiore accuratezza, la fonte A si caratterizza anche per la presenza di tutta una serie di modifiche anteriori alla première che, quantunque irrilevanti ai fini della restituzione critica del testo, possono far luce sulle varie fasi del suo processo di compilazione e, in una certa misura, di socializzazione. un altro degli aspetti più dibattuti in relazione alla realizzazione delle moderne edizioni critiche di opere del primo Settecento, è quello inerente il trattamento del testo letterario (parole poste sotto le note e didascalie sceniche). Le divergenze fra il testo fornito rispettivamente da Vivaldi in A e da Alberto Pazzoni in L sono, come si è detto, il risultato di una mancanza di comunicazione fra il compositore e lo stampatore, ma anche della differente funzione pratica di A e L (sia rispetto all’uso che ai rispettivi destinatari). In nessun caso è lecito supporre che A dipendesse da L. Dal momento che il testo scritto in partitura ha una relazione con la musica assai più stretta di quello stampato nel libretto, in tutti i casi in cui A e L trasmettono delle varianti adiafore, l’edizione promuove a testo la lezione della partitura, segnalando in Apparato critico quella attestata nel libretto. Il testo posto sotto le note non adotta di conseguenza le varianti di L laddove A fornisce una versione accettabile, e accoglie quelle di L, purché corrette, solamente dove A è chiaramente in errore.

L’assenza, in A, delle didascalie sceniche (con l’eccezione della precisa menzione dei personaggi che cantano), e di molti altri particolari inerenti l’interpunzione, è perfettamente coerente con la prassi dell’epoca, dal momento che il compositore incorporava nella partitura solo le informazioni strettamente necessarie per l’esecuzione. Il libretto, al contrario, era destinato al pubblico del teatro per essere letto ed eventualmente conservato e come tale doveva comprendere una precisa descrizione delle scene e un testo poetico redatto in forma ortograficamente corretta. Differentemente da A e da L, la moderna edizione a stampa della partitura si rivolge sia ai lettori che agli esecutori ed è uso comune incorporarvi tutte le didascalie sceniche del libretto. È opinione del curatore che questa fusione di due fonti debba essere accettata per quello che effettivamente è: un’integrazione dell’autografo per mezzo di informazioni trascurate dal compositore solamente perché non aveva alcuna ragione pratica per annotarle in partitura.

Per quanto si riferisce alla normalizzazione delle forme testuali di Vivaldi, il testo posto sotto le note segue le convenzioni moderne, descritte analiticamente nelle Nuove norme editoriali dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi. Sono state mantenute le forme specifiche di A in tutti quei casi in cui il processo di normalizzazione avrebbe depauperato il testo originario di taluni aspetti della pronuncia codificati attraverso l’intonazione musicale. Di regola, il testo poetico pubblicato in partitura è dunque una fusione del testo trasmesso in A e di un processo di normalizzazione dell’ortografia e della punteggiatura di L, il cui scopo consiste nell’offrire al lettore e all’esecutore moderno quante più informazioni possibili, senza compromettere la corretta comprensione di informazioni importanti sotto il profilo musicale.


Elenco delle arie

Atto I
Tito, Se il cor guerriero
Manlio, Perché t’amo, mia bella, mia vita
Servilia, Liquore ingrato
Lucio, Alla caccia d’un bello adorato
Decio, È pur dolce ad un’anima amante
Tito, Orribile lo scempio
Lucio, Parla a me speranza amica
Vitellia, Di verde ulivo
Lindo, L’intendo e non l’intendo
Servilia, Parto, ma lascio l’alma
Manlio, Sia con pace, o Roma augusta

Atto II
Lucio, Non ti lusinghi la crudeltade
Manlio, Se non v’aprite al dì
Vitellia, Grida quel sangue
Lindo, Rabbia che accendasi
Servilia e Vitellia, Dar la morte a te, mia vita / Al tuo sen riparo e scudo
Manlio, Vedrà Roma e vedrà il Campidoglio
Lucio, Combatta un gentil cor
Decio, No, che non morirà
Servilia, Andrò fida e sconsolata
Tito, Legga e vegga
Vitellia, Povero amante cor
Lucio, Fra le procelle

Atto III
Servilia, Tu dormi in tante pene
Servilia, Parto contenta
Lucio, Chi seguir vuol la costanza
Lindo, Brutta cosa è il far la spia
Vitellia, A te sarò fedele
Lucio, Non basta al labbro
Tito, No, che non vedrà Roma
Manlio, Ti lascerei gl’affetti miei
Servilia, Sempre copra notte oscura
Lindo, Mi fa da piangere
Manlio, Dopo sì rei disastri