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Donatoni: 1927-2000

Donatoni: 1927-2000

La collaborazione tra Franco Donatoni e Casa Ricordi è cominciata nel luglio 1977 e si è protratta fino alla sua prematura scomparsa, avvenuta il 17 agosto 2000. 

L’interesse per la sua musica ha stimolato molti studiosi a realizzare pubblicazioni musicologiche per delineare il percorso della sua grande carriera, così come importanti sono le testimonianze che lo stesso Donatoni ci ha lasciato: numerosi saggi, pubblicati in diversi volumi, ma soprattutto i seguenti libri, pubblicati nell’arco di 18 anni: Questo (Adelphi 1970), Antecedente X. Sulle difficoltà del comporre (Adelphi 1980), Il sigaro di Armando. Scritti 1964-1982, a cura di Piero Santi (Spirali Edizioni 1982), In-Oltre (Edizioni L’Obliquo 1988). 

Vogliamo ricordarlo con un estratto da una lunga intervista (‘Prima il pensiero, poi la musica’) rilasciata ad Angelo Foletto per «Musica Viva» del febbraio 1985, riportando il suo pensiero su alcuni temi e musicisti che hanno segnato il suo percorso artistico.

Perché la musica?
…bisognerebbe arretrare oltre quel tempo che io posso in qualche modo connotare, per dirlo. So soltanto che la musica non era legata professionalmente all’ambiente familiare, dove si amava con semplicità l’opera, da Rossini a Puccini, come si conviene a una famiglia medio-borghese di provincia […] Il mio incontro con la musica è avvenuto pre-natalmente: nell’inverno del 1927, quando mia madre era incinta, i miei genitori avevano un amico direttore del Teatro Nuovo che procurava i biglietti per gli spettacoli di quella stagione ch’era tutta di operette. 

Il curriculum tranquillo e l’incontro decisivo
Dopo la guerra mi sono dedicato soltanto alla musica e ho fatto la spola da Milano e Bologna per i regolari diplomi. Poi finalmente, nel 1951, l’incontro con Goffredo Petrassi che mi ha spinto a iscrivermi a Roma…
È stato un rapporto iniziato felice, fin dal primo momento, quando senza formalità mi chiese di raccontargli la mia vita; così, offrendomi una sigaretta e poi raccontandomi la sua, di vita. Si è stabilito subito un legame stretto perché esisteva tra noi una matrice comune. Da allora i nostri incontri sono stati frequenti – essere sempre disponibili; questa è una cosa che devo al suo esempio – e si discuteva di musica, ma non soltanto. Negli anni romani la mia aria fresca era rappresentata dall’umanità di Petrassi.


Tra i musicisti incontrati in questi anni, quali ricorda per il segno ch’erano destinati a lasciare nella sua formazione?
Bruno Maderna, prima di tutti. Un incontro fortuito ma decisivo. Maderna passò da Verona l’inverno 1953-54, lo conobbi a casa di amici comuni; fu un rapporto profondo, fatto di lunghissime conversazioni […]; era il periodo di composizione del suo Quartetto che lui mi raccontava come procedimento, non certo con idee didattiche o esplicative; semplicemente per spronarmi in modo diretto facendomi seguire un percorso mentale fatto di intuizioni e costruzioni. Gli devo moltissimo […]

E dei musicisti della “storia”?
La terna iniziata da Petrassi e Maderna è completata da Bartok, un musicista che mi ha colpito in modo viscerale. Ricordo perfettamente l’ascolto, alla radio, del Quarto Quartetto nella primavera 1949: non mi diede uno stimolo elementarmente culturale, cioè non m’ispirò la voglia di correre in biblioteca e studiare tutti i Quartetti di Bartok. Mi faceva paura, sentivo come qualcosa che mi stava plagiando emotivamente; e infatti, senza averlo assimilato coscientemente e analiticamente, il linguaggio bartokiano segnò fortemente i miei primi lavori. […]

In che modo, da che elemento particolare, si muove una sua composizione?
Come una volta, negli anni Sessanta. Parto sempre da un qualcosa destinato a crescere e a essere trasformato; solo che nei primi anni c’era l’impegno dimostrativo, oggi tutto avviene naturalmente. Allora dovevo dimostrare l’automaticità, la non volontà che regolava i processi compositivi che mettevo in moto, cioè il tipo di “tecnica” impiegata. Oggi so di non poter partire da un’idea astratta e istintivamente cerco quel “materiale” di base; il mio bisogno inventivo ha bisogno della determinazione iniziale, d’un qualcosa che funga da materiale […]

Donatoni e Cage 1979
Ha parlato di «bisogno inventivo»; ma d’inventare cosa?
Il bisogno d’inventare evade dall’ambito della musica: inventare è bisogno di giocare: è come l’immaginazione del bambino. È un’urgenza di cui non riesco a definire con precisione le ragioni, anche se la sua presenza m’è familiare e riconoscibile. […] Ogni attività umana ha un coefficiente d’inventività se l’individuo ha questa vocazione: naturalmente ci sono attività privilegiate.

Ma cosa significa inventare?
Si può definirlo come il dare forma a qualcosa che non c’è, o per lo meno non c’è fuori. Perché esiste dentro ma deve essere espresso, proiettato per poter acquistare forma. L’invenzione musicale ha un movente ch’è la ricerca di una forma.

Proviamo a definire la forma, allora.
È l’afferrabilità: l’inevitabile conclusione di un processo inventivo indipendentemente dall’oggetto in sé […] che parte da un bisogno originario. L’opera conclusa non è più prodotto dell’invenzione, è un prodotto come qualsiasi altro; inventivo è il momento in cui l’opera ancora non esiste, invenzione è un processo.

Il lavoro dell’interprete, in astratto, come lo considera?
Nei casi peggiori, meglio non pensarci; in quelli migliori ti conquista la capacità di ri-creazione, gioiosa. Porto sempre come esempio l’esecuzione di Tema realizzata da Pierre Boulez con l’Ensemble Intercontemporain; ero in uno stato di semplice esaltazione…

Che musica ascolta di solito?
Quel che mi capita; a seconda dei concerti. Poi ci sono gli autori cari – Bach, ad esempio – che scelgo di andare a sentire. In genere però mi interessa semplicemente ascoltare musica, non una in particolare.

Lei insegna da più di trent’anni: come colloca il problema della composizione come scuola?
Una volta, con ideologie e poetiche presenti, c’era la persuasione in una musica d’oggi che potesse guardare al futuro con umiltà e coerenza; negli ultimi anni, con l’esplosione delle numerosissime vie di considerare la musica, l’inse
gnamento s’è ridotto a una forma di assistenza del singolo autodidatta, alla trasmissione di un’informazione squisitamente artigianale e già questo costituisce una presenza molto forte. Non considero che la funzione dell’insegnante sia di semplice controllo, personale o tecnico; attraverso l’esorcizzazione del proprio essere musicista l’insegnamento deve dare delle indicazioni, degli aiuti ma senza andare oltre.


Cosa affronta letterariamente, al di fuori della musica?
Mah, c’è stato il periodo “negativo”: mi sono immerso in un certo mondi filosofico pessimista; c’è stato il momento misticheggiante e orientaleggiante… oggi leggo soprattutto bei romanzi, poesie.









Foto: © Roberto Masotti / Lelli e Masotti Archivio

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