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Rota, Nino

(03 Dicembre 1911 - 10 Aprile 1979)

Nino Rota nacque a Milano nel 1911 e morì a Roma nel 1979. Figlio della pianista Ernesta Rinaldi, a sua volta figlia del compositore e pianista Giovanni Rinaldi (uno dei più eminenti strumentisti italiani del suo tempo, 1840-95), cominciò a comporre a 8 anni: già nel 1923 fu eseguito a Milano e a Lille il suo oratorio L’infanzia di S.Giovanni Battista.
Aveva cominciato a studiare nel 1919 solfeggio con A. Perlasca e pianoforte con la madre; nel 1923 entrò al Conservatorio di Milano, dove fu allievo di Paolo Delachi, Giacomo Orefice, Giulio Bas e, nel 1925-26 di Ildebrando Pizzetti (composizione), quindi studiò con Alfredo Casella a Roma, dove nel 1930 si diplomò in composizione all’Accademia di Santa Cecilia.

Nel 1931-32 frequentò al Curtis Institute di Filadelfia i corsi di Rosario Scalero (composizione), Fritz Reiner (direzione d’orchestra) e Johann Baptist Beck (storia della musica), nel 1937 si laureò in lettere a Milano con una tesi sul teorico e musicista Gioseffo Zarlino.

Nel 1937-38 insegnò teoria e solfeggio al Liceo Musicale di Taranto, dal 1939 armonia e successivamente composizione al Conservatorio di Bari, di cui fu direttore dal 1950.

La sua attività ha toccato ogni genere musicale, con perfetta misura e padronanza tecnica: la sua produzione comprende circa 162 numeri d’opera e 152 colonne sonore. La sua notorietà internazionale si deve infatti principalmente alle musiche per film, spesso dedicate a pellicole di prima importanza (ad esempio quelle di Fellini, che in tutta la sua carriera si è servito per la musica esclusivamente di lui).
 

Ritratto

di Giovanni Carli Ballola

Nel 1979 Nino Rota usciva dal mondo («non morto», dirà Federico Fellini «ma scomparso: quella strana, ineffabile sensazione di sparizione che mi aveva sempre dato quand’era in vita») senza avere ottenuto da quella saggistica che suol essere supporto e cassa di risonanza della cultura musicale del Novecento altre attenzioni, che le risapute espressioni di una più o meno benevola condiscendenza. Occorre infatti rovistare tra gli articoli della stampa, i programmi di sala, le rare interviste strappate al musicista coevo più accessibile e gentile e insieme più schivo e sfuggente che si conosca, per poter trovare, e non sempre, qualcosa d’interessante che concerna da vicino il mare di note nel quale quell’amabile e un po’ misterioso delfino si librava (è ancora Fellini che parla) «con la libertà e la felicità di una creatura che viva in una dimensione che le è spontaneamente congeniale».

Parole belle, certo, ma parole. Di fatto, siamo stati assai bene edotti su come funzioni, o dovrebbe funzionare, una partitura di quella che, con qualche ottimistico trionfalismo, fu chiamata Nuova Musica; poco o nulla si è ancora detto circa l’essere e l’agire di quei ritmi e di quei motivi da Rota profusi sui pentagrammi con portentosa feracità. Poco o nulla, tranne che si muovono nell’ambito della tonalità (tonale o atonale? L’alternativa era manicheistica, quasi un amletico to be or not to be) e che si tratta di musica disimpegnata, divertente, brechtianamente “gastronomica”; e non è detto che, a mettere insieme questo bel mannello di banalità, i fautori del Nostro abbiano avuto parte meno rilevante dei detrattori o dei bonarii.

Cominciamo col dire a chiare note che fuorviante e ipocrita sarebbe il separare il Rota facitore eccellente e fortunato di memorande colonne sonore da film, dal Rota autore di opere, pagine sinfoniche, cameristiche, religione. In tempi in cui la musica “di consumo” e la musica “d’arte” segnavano la massima divaricazione storica, la fedeltà di Rota a una primigenia e per così dire meta-storica unitarietà del linguaggio dei suoni, il suo procedere sicuro e non dimidiato attraverso una creatività versatile e onnicomprensiva, la sua olimpica impassibilità super partes nei confronti dei tumulti estetici e ideologici del mondo che lo circondava, la sua inossidabilità alla diatriba e alla polemica, suonano provocatorie: se involontariamente o no, è difficile dire. Sta il fatto che la mano che vergava le note destinate a La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Il padrino, Amarcord di Fellini, Le notti bianche, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo di Visconti e a tant’altre pellicole illustri e meno, non era per nulla più corriva e meno rigorosa (fermi restando i pregi di una superlativa professionalità), di quella dell’autore del Cappello di paglia di Firenze e della Notte di un nevrastenico, del Concerto per archi e di quello in Do per pianoforte e orchestra, delle Variazioni sopra un tema gioviale, e ancora delle numerose pagine strumentali e vocali da camera, nate spesso come risposta gentile e generosa a sollecitazioni occasionali di amici e di discepoli.

Una sostanziale unitarietà stilistica e qualitativa sottende infatti come corrente carsica alla disparità di utenza entro cui s’incanalano i due rami della produzione rotiana. Tale constatazione che potrà forse sembrare ovvia (ma non è detto) sta alla base della stessa prassi compositiva del nostro musicista, il quale era solito trasporre i propri materiali tematici dall’uno all’altro canale produttivo, senza altri problemi che non fossero quelli della loro effettiva fungibilità entro i nuovi contenitori. Tali riciclaggi attendono ancora uno studio organico da condursi sulle molteplici fonti testuali, un po’ come si è fatto (e l’ombra disincantata di Rota non ce ne voglia, per questi accostamenti arrischiati) per Händel, Gluck, Rossini e altri campioni dell’autoimprestito. E opportuno torna qui lo spendere qualche osservazione su quell’altro tratto specifico dell’arte di Rota che alla suaccennata prassi dell’autoimprestíto è intimamente correlato e che tuttora fa le spese delle idee correnti che si hanno sul nostro autore: intendiamo parlare dì quella sua fertilità inventiva di motivi plastici, incisivi e di pronta memorizzazione, senza la quale impossibile gli sarebbe stato il mestiere da cui trasse fama e fortune internazionali.

 

Celebrato un tempo come ingrediente primario e indispensabile dell’espressione musicale, soprattutto quella attinente al teatro («Non si può far opere senza motivi», affermava Bizet; «Gli manca il motivo», bofonchiava Verdi alle spalle di Boito), nel Novecento il motivo verrà isolato nel ghetto della musica di consumo, o, presso gli autori “colti”, nella cornice dorata, ammiccante e intellettualistica, della citazione. Il perché di tale stato di cose e il come Rota sapesse opporvisi in termini non teoretici e men che mai polemici, ma affatto spontanei, furono già mirabilmente sintetizzati da Fedele D’Amico in una pagina che non possiamo non ricordare:

Il compositore moderno è ‘inattuale’ nel senso che fra la sua musica e quella che la società del suo tempo sente come
Musica Naturalis, cioè come formulazione naturale del suo sentimento musicale spontaneo, non corre necessariamente un rapporto [...] Il suo contrassegno tipico è un dualismo netto tra l’elaborato finale e i suoi dati iniziali (temi, stili determinati, l’idea stessa di Musica), i quali vanno distanziati, descritti commentati, insomma criticati, mai assimilati senza residui, mai restituiti alla spontaneità originaria [...] Ora, la sua brava inattualità Nino Rota la raggiunge anche lui, ma per via opposta, cioè ignorando questo procedimento. La gente crede di scandalizzarsi perché trova nella sua musica relazioni tonali sempre esplicite, simmetrie melodiche fondate sulle canoniche otto battute, eccetera; ma si sbaglia: lo scandalo è che cose del genere siano ammesse nella sua partitura come naturali, invece di essere messe tra virgolette. [...] Il senso di una posizione alla Rota sta nel fare appello a una società clandestina, quella dei coeurs simples, tranquillamente testimoniando la permanenza di sentimenti e valori ingenui, attraverso stili e convenzioni dichiarati fuori corso. (L’Espresso, 21-1-1969)

Si era nel ‘68, quando l’Avanguardia era ancora tale e ben acuminati gli steccati ideologici ed estetici di cui si circondava. Oggi, caduti tanti muri e in un mondo dell’arte estremamente parcellizzato in cui nessuno più si scandalizza di niente, una siffatta, appassionata difesa d’ufficio suona come documento storico. Prosciolta da un siffatto contenzioso, l’arte di Rota ci si presenta finalmente affrancata dalla tutela di patrocinatori di parte (non sempre del calibro di un D’Amico) che ne giustifichino l’esistenza e la compresenza, nel mondo della musica del 900, con tutt’altre scelte di estetiche e di linguaggi. Men che mai ci si presenta oggi come moneta fuori corso rispetto a non si sa bene quale “modernità”, bensì come legittima espressione di un far musica non meno autenticamente contemporaneo, nella sua abissale diversità, a quello di Berio o di Stockhausen. Verissimo che il melodizzare di Rota si muova per lo più nell’ambito di un sistema tonale e fraseologico di collaudata familiarità; ma detto questo, non è detto tutto. In realtà, la sua armonizzazione, i suoi processi modulanti, i suoi valori timbrici risultano inconcepibili senza il riscontro con più di un grande della musica del 900, da Stravinsky a Prokofiev, da Ravel a De Falla e a Britten, nonché con nomi meno risonanti ma non meno intriganti come Korngold, Gershwin, Berlin, Kern, Forter, Rodgers e altri maestri di Hollywood e Broadway mica da buttar via; per tacere del mondo dell’operetta classica e moderna. Una panorama variegatissimo e tutt’altro che fuori del tempo, al contrario, anche troppo abbarbicato a questo nostro secolo ormai agli sgoccioli.

Quanto incongrua suoni quindi la risaputa sistemazione di tali note sotto le etichette della musica al quadrato e del meta-comporre, ci pare ovvio considerare. Ma è soprattutto nel teatro che la modernità di Rota, il suo non potersi definire altrimenti che un compositore del Novecento, si rivelano in tutta esemplarità. Pur accogliendo arie, duetti, cori e finali d’atto Il cappello di paglia di Firenze o La notte di un nevrastenico non possono propriamente definirsi opere a pezzi chiusi. Dalla scena, infatti, e non dal pezzo scaturisce in modo squisitamente moderno l’idea generatrice della loro teatralità, oscillante tra i due poli di una narrazione, per così dire, tradizionale in quanto scandita atto per atto in tempi lunghi, e del pannello episodico in sé circoscritto e concluso. Si pensi alla scena della modisteria nel primo atto del cappello, attraversata dal fremito pungente del coretto femminile che trapunta il temino à la Rossini: Rota la chiama “intermezzo”, pur sapendo benissimo che tanti altri, a partire da Debussy per arrivare a Britten attraverso Berg e Prokofiev, il teatro in musica non lo avevano concepito altrimenti che per scene strutturalmente autonome giustapposte e di breve durata. Tuttavia egli sembra generalmente privilegiare una narratività flessibile e modulata che gli consente di modellare la sua recitazione melodica sul tracciato cangiante di motivi orchestrali finemente elaborati: pronto a decollare nell’eventuale stacco più spiccatamente cantabile (che pertanto sarebbe improprio definire come pezzo chiuso) per poi rientrare con sourplasse nei ranghi di uno squisito stile di conversazione.

Immerso in questo turbinoso flusso di motivi e di suggestioni, Rota si mosse come tra gli alberi di un variegato frutteto, cogliendo, come già ebbe e dire Molière, il proprio utile, laddove gli si presenti. Ma in quelle piccole mani use a tormentare distrattamente i tasti del pianoforte traendone un incessante rivolo di motivi, i pomi delle Esperidi di due o più secoli di musica diventano qualcosa di assolutamente personale, cui soltanto quelle mani sapevano donare nuovo e inconfondibile sapore. Il sapore antico di quella “Musica Naturalis” che non conosce altri doveri tranne quello di piacere e che, di là dagli ultimata delle estetiche novecentesche e affrancata dal crudele virgolettato del meta-comporre, sa far udire ancora e sempre la sua voce amabile e amica.