Nel catalogo di Casa Ricordi è compreso praticamente tutto quanto da Varèse è stato scritto - in fatto di note*- nel corso di un’intera vita, neppure così breve (1883-1965); o almeno quanto il suo autore ha voluto che sopravvivesse dopo l’impietosa distruzione di quello che aveva composto in più di vent’anni, fino cioè alla partenza per gli Stati Uniti nel 1914. Sono dodici pezzi, che potrebbero essere integralmente eseguiti in due soli concerti di durata non troppo superiore alla media. Una produzione dunque limitatissima, la più limitata sicuramente che si conosca nella storia della grande musica, assai più addirittura di quella di un Berg o di un Webern. E tuttavia, a oltre cent’anni dalla nascita di questo compositore, essa appare più attuale e vitale che mai, e questo “rilancio” ne costituisce la prova evidente.
Cerchiamo di capire, guardando da vicino questa figura d’uomo e d’artista, le ragioni della salda sopravvivenza della sua opera.
Il poema sinfonico
Bourgogne, terminato nel 1909 ed eseguito nel 1910 a Berlino, fa parte com’è noto delle opere ripudiate dal compositore (ma solo nel 1961, stranamente, Varèse prenderà la decisione di distruggere materialmente la partitura). Eppure sentiamo che cosa rispondeva in un’intervista del 1965 a una domanda relativa alla funzione molto articolata degli archi in questa composizione:
“Stavo cercando di avvicinarmi a quella vita interiore, microcosmica, che si può scoprire in certe soluzioni chimiche; o nella luce filtrata. Utilizzavo gli archi in modo non tematico, come sfondo a un grosso insieme di ottoni e di percussioni”.
Evidentemente egli parla col senno di poi, cioè tenendo conto - consciamente o meno - dell’evoluzione del suo pensiero e delle sue ricerche durate più di quarant’anni. La decisione di distruggere nonostante tutto quelle opere giovanili ci indica però che, con tutte le già personali innovazioni che potevano contenere, c’era in esse qualcosa che non lo soddisfaceva (nell’unica che è sopravvissuta,
Un grand sommeil noir del 1906, su testo di Verlaine, per canto e pianoforte, possiamo forse capire di che cosa fosse insoddisfatto): il fatto è che Varèse mirava a una
rifondazione radicale della musica, ed egli poté cominciare a realizzarla davvero solo a partire dal 1920.
L’espressione “territori inesplorati” che poco sopra è scivolata discorsivamente dalla penna, è alla fine proprio la più esatta per definire la posizione di Varèse e la natura della sua musica: perché non esiste forse nel nostro secolo nessun compositore che abbia ripensato così dalle radici l’arte dei suoni. Prendiamo Schönberg. Il suo periodo dell’“emancipazione della dissonanza”, tra il 1909 e il 1920 circa, ha prodotto certamente opere sconvolgenti e sublimi. Tuttavia se analizziamo la struttura del loro linguaggio possiamo notare che esso è pur sempre segnato dalla volontà di contrapporsi a quello della tradizione, di negarlo, potendo quindi esistere solo in quanto continuazione-rottura rispetto ad esso. E quando Schönberg adottò la dodecafonia, non si rifugiò forse per lunghi anni nelle forme tràdite, sette e ottocentesche, quasi a voler realizzare una solida congiunzione tra passato e presente, una
conciliazione dopo le eruzioni del periodo precedente? E Bartók, musicista che Varèse peraltro stimava enormemente? Le sue straordinarie innovazioni linguistiche e formali poterono aver luogo solo in quanto egli riuscì a potenziare, a sublimare a misura d’arte i dati di “extraterritorialità” che gli venivano dal ricorso alle movenze e ai caratteri popolari che sappiamo: nemmeno lui ebbe l’ardire di partire davvero da una “tabula rasa”. E questo discorso non vale mutatis mutandis forse anche per lo Stravinskij del periodo aureo (per tacere del lungo crepuscolo noeclassico)? E il ricorso alle forme e talora all’armonia tradizionale di Berg? E la prodigiosa capacità visionaria di Ives, che vive però della rigenerazione e della commistione di linguaggi del passato e del presente? Il neobarocco (si badi alla definizione!) di Hindemith? Il cosiddetto cubismo musicale di certo Prokofiev, che può esistere solo in quanto deforma, stravolge o sublima tratti, movenze, sonorità noti? E quanta tensione dialettica col passato negli Sciostakovic, Malipiero, Villa-Lobos, Ravel...
Di questo conflitto duro, di questa lotta per riplasmare e rinnovare, non v’è traccia nell’opera di un solo compositore del nostro secolo: e questo compositore è Edgard Varèse, che dev’essere stato portato di necessità dal suo istinto autocritico, a rinnegare ciò che aveva scritto nei primi anni, che forse recava a sua volta i segni di un conflitto non risolto, di una subalternità, in qualche modo, al passato.
A partire da
Amériques ci troviamo davvero in territori inesplorati, lontani appaiono gli echi delle polemiche, delle esplosioni, dei compromessi fors’anche che i suoi coetanei qualche volta avranno dovuto accettare. Ma lui, Varèse, ha preso le distanze, anche fisicamente, ha messo 6000 chilometri tra se stesso e Parigi, si è trasferito in terra vergine. Può incominciare il suo nuovo lavoro con la mente sgombra, con l’illusione di gettare in un mondo nuovo il seme di una pianta sconosciuta. E il percorso attraverso le musiche che egli compose da quel momento descrive una linea affascinante e in costante ascesa. Reminiscenze stravinskiane che si possono avvertire nei primi pezzi appaiono piuttosto relitti quasi fisiologici di un periodo formativo (la Parigi degli
anni ’10) che non ricupero di legami col passato. E subito invece ci attira la trasparenza della sua strumentazione, che crea agglomerati nuovi, cristallini, nati da una concezione timbrica di cui non troveremmo anticipazioni in nessun predecessore; la pulizia delle sue armonie, che non nascono “in antitesi a”, o “per negazione di”, e tanto meno col semplice quanto insulso intento di
épater le bourgeois, ma come fiori ignoti, come di un altro pianeta, in forza di una logica fisica e acustica che ha la sua ragion d’essere in sé stessa e non si preoccupa di apparire più avanzata o più moderna di altre, perché semplicemente è, nella sua autonomia e nella purezza della sua costruzione; la semplicità della forma, per lo più assai contenuta nella durata, costruita con elegante semplicità, così come un esperto muratore tira su un muro di mattoni nudi che non hanno bisogno di orpelli, arricchimenti o fregi per dichiararsi in tutta la loro funzionale bellezza. Questo percorso, lungo negli anni per quanto ridotto nella quantità, porterà Varèse attraverso esperienze esaltanti come il brano per sola percussione, le risonanze arcane del coro di bassi all’unisono sui testi rituali maya del
Popol Vuh, il titanico progetto di
Espace, fino all’incontro con la musica concreta di
Déserts e a quella elettronica del
Poème.
Nessuno credo è in grado di spiegare, allo stato, perché mai Varèse, che per decenni aveva aspirato a una musica “della macchina”, a una musica di sonorità sconosciute, non abbia approfittato a fondo del mezzo elettronico. Dedito da gran tempo a instancabili sperimentazioni e auscultazioni dei vari strumenti percussivi ed esotici di cui traboccava il sotterraneo della sua casa di New York, felice di andare nelle officine e per le strade a registrare i suoni e i rumori che gli sarebbero serviti - manipolati - per le parti su nastro di
Déserts, egli forse sentì, intravvide nelle sonorità elettroniche, lo spettro di quella cultura della disumanità contro cui aveva in realtà lottato tutta la vita: e se ne ritrasse spaurito, ancora legato in fondo a una concezione ottocentesca della “macchina”. Stavolta certo sbagliava, ed era forse troppo vecchio del resto per entrare in un nuovo territorio da esplorare. Ugualmente quello che egli fece è servito per anni da insegnamento limpido e puro a intere generazioni di compositori: Varèse ha insegnato da una parte la fedeltà a un’idea, il disprezzo del compromesso, la necessità persino di accettare l’emarginazione se questo si deve pagare per preservare la propria coerenza e le proprie convinzioni; dall’altra a porsi di fronte alla musica con mente libera, con sincera curiosità per il nuovo, per il non-ancora-udito, a non appoggiarsi a schemi o moduli precostituiti ma a costruire ogni volta, in ogni opera, le ragioni autentiche della sua esistenza, della sua struttura. Per tutto questo egli rimane l’unico musicista del nostro secolo che può essere a buon diritto posto accanto all’altro grande maestro di vita, di musica e di umanità che fu Schönberg: e l’ascolto delle sue opere ne costituirà per chiunque la prova più forte e più chiara.
Giacomo Manzoni, 1989
*Gli scritti principali, vive testimonianze della problematica compositiva e umana di Varèse, sono raccolti in
Écrits.Textes réunis et présentés par Louise Hirbour, Christian Bourgois Éditeur, Paris 1983. Traduzione in italiano:
Il suono organizzato, Edizioni Ricordi/Unicopli, Milano 1985